Il malore di Edoardo Bove e la necessità di intervento per impiantare un defibrillatore al giovanissimo calciatore romano ha mantenuto alta l’attenzione del mondo del calcio nei giorni appena trascorsi.
È in merito al tipo di dispositivo che è stato posizionato al giocatore viola che nascono perplessità. L’Ansa ha specificato, in un comunicato ufficiale relativo all’intervento al quale è stato sottoposto Bove che “l’aspetto importante è che il defibrillatore è removibile e dunque il giocatore, una volta raccolti tutti i risultati degli accertamenti effettuati in questi giorni, potrà decidere anche di toglierlo in totale autonomia”.
Ma su questo punto, ossia sul fatto che si tratti di un dispositivo rimovibile, è intervenuto il presidente della Società italiana di Cardiologia dello Spot, il dottor Giampiero Patrizi che, a Cronache di Spogliatoio, ha spiegato: “Si è parlato di defibrillatore rimovibile. Questa definizione non esiste. Qualsiasi defibrillatore è rimovibile, a rischio e pericolo del paziente. L’unica differenza tra le tipologie di defibrillatori è che uno non si impianta sotto lo sterno, quindi è meno invasivo. L’altro, che solitamente è utilizzato per pazienti più anziani, viene posto sotto la clavicola e vengono inseriti due fili con elettrodo metallico dentro alle camere cardiache”.
Il professionista si sofferma, poi, anche sulla differente regolamentazione esistente. Sui motivi per i quali non è possibile giocare in Italia, mentre in Premier sì. “È una differenza giurisdizionale, non medica. I medici sono tutti concordi che un giocatore con problemi cardiaci non debba svolgere attività sportiva intensa. In Italia, però, c’è una legge, emanata dopo la morte in campo di Renato Curi nel ’77, per cui per poter giocare a livello agonistico si deve superare una visita di idoneità. Questo all’estero non c’è. In Inghilterra non c’è un medico che redige un certificato per far giocare quell’atleta, è il professionista che si autodetermina e si assume le responsabilità di giocare nonostante il rischio elevato di ricaduta. L’atleta confida sul fatto di continuare a giocare nonostante il rischio. Il problema è che è un confidare erroneo. Perché, come per la visita di idoneità, possiamo rintracciare un 90/95% di patologie potenzialmente letali, così anche il defibrillatore non può proteggere al 100% l’atleta e non si ha la certezza assoluta che riesca a defibrillare il cuore. Questo è un concetto che deve passare”.
Patrizi si è voluto soffermare anche sul presunto aumento di casi che si registrano nell’ultimo periodo per precisare: “Non c’è nessun aumento dei casi negli ultimi anni, semplicemente c’è un attenzione ed esposizione mediatica maggiore. Questi casi sono sempre accaduti: ci sono tanti dati scientifici – tra cui lo studio del gruppo veneto pubblicato sul ‘journal of American medical association’ – che dimostrano che non c’è nessun incremento dei casi. Anzi, da quando c’è la visita di idoneità sportiva, si sono abbattuti del 90% i casi. Per arrivare a ridurre ancora di più i casi di decesso durante l’attività, deve crescere la cultura e la disponibilità di mezzi e persone che raggiungano le competenze per poter intervenire con una defibrillazione efficace nell’arco dei primi 5 minuti. Per farlo basta un corso di mezza giornata. Mi preme dire, infine, che va fatto comprendere agli atleti che si trovano ad avere un problema cardiaco che non è consigliabile continuare a esercitare un’attività strenua. Questo perché un’attività molto intensa può accelerare la progressione della patologia. Si aumentano così le possibilità che in futuro il cuore possa defibrillare ancora”.