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Roma non è più casa tua ma forse non è neanche più casa nostra.

Il nostro editoriale che ridisegna un percorso finito troppo presto ma che segna un rottura irreparabile tra tifosi e società

La mattina dopo fa ancora più male.
La notte è passata, quella di Daniele sarà stata lunga, tormentata e insonne ma è quando suona la sveglia il giorno dopo che realizzi di aver perso la tua quotidianità.
Che devi ricominciare daccapo a costruirti un futuro. E non si tratta di soldi ma di aspirazioni, di obiettivi e di progetti.
Una carriera dedicata alla Roma, quella da calciatore: vent’anni in cui non ha vinto niente se non qualche Coppa Italia e se non fosse stato per il Mondiale con l’Italia non avrebbe mai provato l’ebbrezza di sentirsi, almeno per un giorno, un vincente.
Ma andava bene così, perché giocare sotto la Curva Sud valeva più di un trofeo, combattere per la propria gente, baciarsi lo stemma sul petto dopo un gol: era quella la felicità.
Una volta appesi gli scarpini al chiodo è arrivato il momento di rimettersi in discussione e di ridisegnare il proprio futuro. “Cosa voglio fare da grande? L’allenatore!”. Ma era già scritto, in fondo: lo è sempre stato in campo e negli spogliatoi anche mentre giocava, sarà stata un’eredità…
E allora si comincia a studiare e si inizia una nuova avventura che gli fa sentire meno il peso del tempo.
Arrivano le prime esperienze: una positiva, quella durante gli Europei in cui impara da un allenatore che riesce a rendere grande una squadra modesta, e una in Serie B dove arriva il primo esonero.
Poi subito la grande opportunità: tornare a Roma.
Un grande salto per un allenatore agli albori ma si sa Roma è casa sua: lì si torna sempre.
Peccato che Roma non è più quella che aveva lasciato. Roma, adesso, è la stessa che ha voluto Totti fuori dal progetto, che non rimpiange le bandiere ma le condanna.
Però, in quel momento, Roma ha bisogno della sua bandiera per ricucire uno strappo e non rischiare di perdere quei sold out all’Olimpico, che garantivano soldi sicuri.
E allora Daniele De Rossi era l’unico che avrebbe conciliato uno stipendio esiguo con l’entusiasmo della piazza.
Torna a Trigoria, realizza un sogno, non chiede stipendi importanti: è felice e lo sa.
I tifosi tornano a cantare, sognano un Ferguson romano, perdonano alla società la cacciata di Mourinho e preparano cori e striscioni per dare il bentornato a chi a Roma ha fatto la storia.

Roma non è più casa nostra

Quell’anno qualche soddisfazione arriva, soprattutto in Europa, si sfiora di nuovo una finale e si crede finalmente che il destino avesse un progetto migliore di ogni aspettativa: tutto quello che De Rossi non era riuscito a vincere in campo lo avrebbe potuto vincere, un giorno, su quella panchina.
Ricomincia la stagione, a De Rossi viene rinnovata la fiducia, ma non gli è permesso di sbagliare: gli viene lasciato poco campo decisionale ma ad ogni errore si pretende che sia lui a metterci la faccia per ricucire ancora una volta quello strappo tra società e tifosi.
Daniele lo fa, perché Roma va difesa.
Giustifica un mercato ritardatario, una gestione precaria e assente si prende ogni tipo di responsabilità e cerca di dare motivazioni a una squadra confusa e disorientata.
Fa i conti con i senatori senza morale ‘che non hanno l’appoggio della tifoseria, e con metà squadra rinnovata: giocatori appena arrivati non solo a Roma ma in questo campionato, catapultati in campo sotto l’occhio giudicante di 80 mila persone che non gli lasciano il tempo di sbagliare.
I Friedkin, invece, non danno il tempo a De Rossi e decidono che sia lui il capro espiatorio, il colpevole.
Mentre prepara la seduta di allenamento gli comunicano l’esonero. Lui era in campo col suo staff, i cinesini e il fischietto in mano per cominciare la seduta che si era studiato il giorno prima e per vincere la prima in campionato, regalando una nuova gioia ai suoi tifosi.
Ma non ha tempo, dopo due ore arriva il nuovo allenatore e il pomeriggio quella seduta la guida lui.
De Rossi se ne va da Trigoria, saluta staff e dipendenti del centro sportivo e si lascia scappare: “Stavolta a Roma non ci torno più…”.
I tifosi passano la notte sotto casa sua come a sentirsi in dovere di chiedergli scusa per le decisioni di quella Roma che non li rispecchia più.
A lui che ha dato tutto per questa squadra viene riservato un trattamento indecente:
umiliato e trattato come fosse uno dei tanti, sbattuto fuori da casa sua, da chi si sente padrone di un posto senza neanche sapere che aria si respiri lì dentro.
Senza sapere cosa stesse significando per noi avere Daniele in panchina ogni domenica: il nostro sogno, il suo sogno distrutto con un comunicato glaciale, imperdonabile.
Roma non è più casa tua ma forse non è neanche più casa nostra.

Melissa Landolina
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Melissa Landolina